Perché gli italiani parlano con le mani (e gli scandinavi no)

Photo by Haraldo Ferrary / CC 2.0 When the moon hits your eye like a big pizza pie That’s amore… Che sia per amore, collera o passione, gli italiani hanno la fama di esprimersi a gesti e con il linguaggio del corpo, come se le emozioni che si agitano nel loro animo non si potessero esprimere solo a parole, […]
italiani parlano con le mani

Photo by Haraldo Ferrary / CC 2.0

When the moon hits your eye like a big pizza pie
That’s amore…

Che sia per amore, collera o passione, gli italiani hanno la fama di esprimersi a gesti e con il linguaggio del corpo, come se le emozioni che si agitano nel loro animo non si potessero esprimere solo a parole, ma richiedessero anche un dito accusatorio, o mani rivolte al cielo, o un pugno chiuso da scuotere.

Gli scandinavi al contrario hanno tutt’altra fama. Secondo gli stereotipi tradizionali, i popoli nordici sono più razionali e riservati. Il che non vuol dire che non provino emozioni estreme, solo che sono meno propensi a esprimerle fisicamente.

Certo, questi sono cliché culturali, anche se non si può negare che gli italiani tendono a usare le mani per esprimersi. Ma se ci fosse un imperativo biologico alla base di tutto questo? Se i gesti contribuissero in realtà allo sviluppo del cervello? Se ci fosse un collegamento tra come usiamo le mani e come risolviamo i problemi?

La passionalità dei popoli del sud e la riservatezza dei nordici

Cominciamo con l’esaminare alcuni di questi stereotipi. L’idea che i paesi più a sud siano più caldi, sia in termini meteorologici che di temperamento, è raramente messa in discussione, ma è una premessa difficile da valutare.

Se accettiamo che abbia un fondo di verità, perché allora alcune lingue germaniche sono più cerebrali mentre le lingue romanze sono, be’, più romantiche? Fa più freddo in Norvegia quindi la gente si tiene le mani in tasca? La complessità grammaticale del tedesco e delle lingue della stessa famiglia favoriscono forse una visione più analitica del mondo?

È la classica domanda dell’uovo e della gallina, applicata alla lingua e alla cultura: quale delle due viene prima? Non c’è una risposta univoca. La scienza tuttavia ci sta fornendo sempre più prove che il rapporto tra gesti e linguaggio è di importanza cruciale per lo sviluppo del cervello umano.

Anche i pesci parlano?


Uno studio dell’anno scorso ha dimostrato che esiste una chiara connessione tra i circuiti cerebrali responsabili della vocalizzazione e quelli che controllano i movimenti e i gesti in una certa parte del cervello di una specie di pesce, in pratica un collegamento tra i suoni emessi da quei pesci e come usano le pinne.

Il professor Andrew Bass, che ha condotto lo studio alla Cornell University, è convinto che sia tutto parte della “storia più vasta dell’evoluzione del linguaggio”.

Intanto, all’Università Pompeu Fabra di Barcellona, due ricercatori stavano studiando i gesti dei neonati nel periodo che va dai primi balbettii fino al momento in cui iniziano a produrre vere e proprie parole. Secondo la ricerca, pubblicata nel febbraio 2014, i bambini sanno coordinare l’espressione vocale e i gesti prima ancora di iniziare a parlare.

“Lo studio del linguaggio e della comunicazione umana non può essere condotto solo con l’analisi del parlato”, ha spiegato Núria Esteve Gibert, una dei ricercatori, all’agenzia di stampa scientifica del governo spagnolo SINC. Il gesto più comune che fanno i neonati? Puntare il dito.

Alcuni ricercatori della San Francisco State University sono andati oltre, esaminando il collegamento tra i gesti e la soluzione dei problemi. Hanno così scoperto che i bambini che usano i gesti più spesso nella vita quotidiana sanno svolgere meglio certe attività. È un principio che si applica a ogni età, secondo Patricia Miller, professoressa di psicologia tra gli autori dello studio: “Anche noi adulti a volte gesticoliamo quando stiamo facendo attività come organizzare le bollette o sistemare i cassetti. Quando le nostre menti sono sovraccariche, scarichiamo sulle mani un po’ del peso dei processi cognitivi”.

Verso una teoria dell’apprendimento “incorporato”

Tutto questo ha implicazioni importanti per il modo in cui impariamo le lingue. Va a sostegno dell’idea che l’apprendimento sia un’attività “incorporata”, qualcosa che richiede una complessa interazione tra cervello e corpo. I gesti non sono situati solo nel corpo, così come i pensieri non si manifestano solo nel cervello. (Per una dimostrazione di questa idea, provate a pensare a qualcuno che amate o odiate intensamente e osservate cosa fa il vostro corpo).

Questa concezione dell’apprendimento linguistico ha dato origine al Total Physical Response (risposta fisica totale), un metodo per insegnare le lingue con gesti e movimenti corporei.

Non vale solo per i bambini: anche gli adulti che stanno imparando una nuova lingua spesso fanno inconsciamente qualcosa di simile – alla memoria piace avere associazioni fisiche. Alcuni preferiscono usare i movimenti delle mani per esercitarsi sui toni in lingue come il vietnamita o il cinese mandarino.

Certo, questo non basta a spiegare perché gli italiani amano gesticolare mentre parlano, ma forse potremmo anche dire che sanno già da sempre quello che la scienza sta solo iniziando a comprendere: esprimersi con i gesti è un ottimo modo di dare una mano (letteralmente!) al nostro cervello.

‘Sea Robin’ photo by Jojoe.photography / CC 2.0

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